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Sanja Skvorcov ficca una mano sotto la maglia. So che lì ha una piccola croce. Edifici a cinque piani schiantati e sbriciolati come pane secco. In una camera, crollata per metà, priva di due pareti e del soffitto, c’è un letto di ferro, sospeso sul vuoto polveroso dei cinque piani… Moltissime finestre. A volte s’incontrano edifici quasi integri, le pareti gialle coperte di rade macchie di spari, come avessero la varicella. Edifici di pietra si avvicendano a quelli di legno, bruciati, coi tetti crollati.

I ragazzi vorrebbero correre verso il luogo dell’esplosione. – Fermi! – urla Semënyč accorrendo dal piano terra. – Doc! – urla Semënyč a zio Jura, il nostro dottore. Trafelato e insieme concentrato alla stregua di un pinguino, e già di suo somigliante a un pinguino appena dimagrito, zio Jura si affretta fianco a fianco con Semënyč. Sono dietro di loro e noto che, mentre Semënyč cammina, zio Jura non riesce a mettersi al passo del comandante, a tratti corre sgambettando. Il doc sorpassa Semënyč in fondo al corridoio, ha visto un soldato, un giovane del secondo plotone entrato nel reparto poco prima della missione, non ricordo nemmeno come si chiama.

Ho fatto in tempo a inghiottire dell’aria e sott’acqua ho afferrato di nuovo il bimbo tra i denti. Con entrambe le mani gli ho sfilato i jeans insieme con l’intimo, come ho capito poi, e ho arrancato convulsamente verso l’alto. Lassù niente era mutato. Sulla riva c’era gente. Anche sui balconi delle case lungo il fiume c’era gente. E anche sul ponte c’era gente, uscita dalle macchine. Rasente la recinzione del ponte, abbaiando, correva un randagio dalle orecchie pendule. Qualcuno gridava: – …un bambino!